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mercoledì 27 aprile 2016

I rapporti patrimoniali tra conviventi: il contratto di convivenza



I rapporti patrimoniali tra conviventi: il contratto di convivenza
Dopo un lungo dibattito, politico e mediatico, il giorno 25 febbraio l'Aula del Senato ha approvato il disegno di legge (ddl) in tema di unioni civili e patti di convivenza (la prima firmataria è stata la senatrice Monica Cirinnà, da cui prende il nome comunemente sentito di "ddl Cirinnà") come risultante dalle modifiche apportate dal Governo con il maxi-emendamento presentato in data 24 febbraio a firma del Ministro Elena Boschi. Il testo adesso è all'esame della Camera (proposta di legge n. 3634) ed attende l'approvazione definitiva e la conversione in legge. Il presente contributo si ripropone di analizzare il contenuto del provvedimento, focalizzandosi in particolar modo sulla questione del contratto di convivenza.
Il Ddl c.d. Cirinnà è un disegno legge dalla rilevante portata, non solo giuridica ma anche politica e sociale, in quanto avente l'obiettivo di introdurre per la prima volta in Italia, e di conseguenza disciplinare, due nuovi istituti, ed in particolare:
  1. l'unione civile tra persone dello stesso sesso quale "specifica formazione sociale";
  2. la convivenza di fatto, sia tra un uomo ed una donna che tra due persone dello stesso sesso: il ddl consente ai conviventi di disciplinare i loro rapporti patrimoniali mediante il contratto di convivenza.
Il disegno di legge va pertanto diviso in due parti in quanto vanno ben distinte le unioni civili che restano riservate alle sole coppie omosessuali, e le convivenze di fatto che invece si rivolgono alle tutte le coppie di fatto, non solo omosessuali ma anche eterosessuali, che hanno deciso di non contrarre un matrimonio (o, se dello stesso sesso, un'unione civile).
Le unioni civili rappresentano una novità assoluta nel panorama italiano, mentre il tema della convivenza di fatto e della necessità di regolamentare tali rapporti è oggetto di studio da qualche anno (si pensi agli accordi di convivenza, e la relativa proposta di legge, elaborati dal notariato alla fine del 2013) ed ha già avuto alcuni ed isolati riconoscimenti giuridici e politici (si pensi da ultimo alle previsioni in tema di prestito vitalizio ipotecario, per chi è convivente da almeno cinque anni, oppure ai registri delle coppie di fatto presenti in alcune città italiane).
Esaminiamo adesso i punti salienti dell'attuale disegno legge, distinguendo i due istituti e focalizzandoci in particolare sul contratto di convivenza. Partiamo, quindi, con l’analizzare l’istituto della convivenza di fatto.
La convivenza di fatto
Comunemente con il termine convivenza (o famiglia di fatto) si indica l’unione di due persone, anche dello stesso sesso, non fondata sul matrimonio. La Corte Costituzionale ha riconosciuto la convivenza quale formazione sociale tutelata a livello costituzionale; va tuttavia precisato come secondo la giurisprudenza (ex multis, Cass. 21 marzo 2013, n. 7214) la convivenza giuridicamente rilevante è solo quella caratterizzata da una tendenziale stabilità, una comunanza di vita e interessi e una reciproca assistenza morale e materiale.
Il legislatore si è occupato della convivenza solo in maniera sporadica (si pensi all’art. 30 L.354/1975, che consente la visita in carcere convivente in pericolo di vita, all’art. 337-sexies c.c., in base al quale il godimento casa familiare viene meno se l’affidatario del figlio conviva more uxorio, o ancora all’art. 408 c.c. che ricomprende la persona stabilmente convivente tra i soggetti che il giudice deve preferire nella nomina dell’amministratore di sostegno). Manca, cioè, una visione organica del fenomeno.
La proposta di legge in esame mira proprio a colmare tale lacuna, e per la prima volta ricollega alla semplice convivenza di fatto (che presenti taluni connotati “minimi”) una serie di diritti a vantaggio di ciascun convivente, sia nei confronti dei terzi che nei confronti dell’altro convivente.
Cos’è: ai sensi del ddl in esame la convivenza è giuridicamente rilevante laddove essa si instauri
  • tra due persone maggiorenni (dello stesso sesso o di sesso diverso);
  • unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale;
  • coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune (ai sensi dell’art. 4 d.p.r. 223/1989);
  • tra loro non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile.
In quanto situazione di fatto, la convivenza non richiede una sua formalizzazione (a differenza, quindi, delle unioni civili), ma è evidente che la sua rilevanza giuridica impone necessariamente un suo accertamento: a tal fine il ddl richiama il concetto di famiglia anagrafica di cui all’art. 4 del d.p.r. 223/1989, e richiede pertanto che vi sia una coabitazione risultante da un certificato di stato di famiglia.
Rapporti personali: la convivenza non genera, così come sinora accaduto, alcun fascio di diritti e doveri reciproci tra i conviventi di fatto per ciò che concerne i loro rapporti personali.
I diritti inerenti la tutela della persona: il ddl estende al convivente taluni diritti e poteri sinora prerogativa dei soli coniugi, ed in particolare riconosce a ciascun convivente
  • gli stessi diritti spettanti al coniuge nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario (estendendo la limitata tutela già riconosciuta dalla legge 26 luglio 1975, n. 354);
  • il diritto di visita, di assistenza nonché di accesso alle informazioni personali, secondo le regole di organizzazione delle strutture ospedaliere o di assistenza pubbliche, private o convenzionate, previste per i coniugi e i familiari in caso di malattia o di ricovero;
  • il potere di conferire, in forma scritta e autografa (oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone) un mandato con il quale designare l’altro convivente quale rappresentante con poteri pieni o limitati:
    • a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute (c.d. testamento di vita);
    • b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie (c.d. mandato post mortem exequendum);
  • la possibilità di essere nominato tutore, curatore o amministratore di sostegno (nonché di essere indicato ex art. 712 c.p.c. nella domanda per l’interdizione, inabilitazione o per la nomina dell’amministratore di sostegno).
I diritti sulla casa di abitazione: tipizzando a livello normativo taluni orientamenti giurisprudenziali che già riconoscevano al convivente superstite la qualifica di detentore qualificato (Trib. Milano 8 gennaio 2003) e che estendevano al convivente il diritto di subentrare nel contratto di locazione in caso di morte del conduttore (ma non anche di semplice cessazione della convivenza), il ddl prevede – fatto salvo quanto previsto dall’articolo 337-sexies c.c. per l’assegnazione della casa familiare (applicabile in presenza di figli minori anche ai conviventi) - che
a) in caso di morte del convivente proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni (che diventano tre anni ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite) o per un periodo pari alla convivenza, se superiore, e comunque non oltre i cinque anni. Il diritto in ogni caso viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza ovvero contragga matrimonio, unione civile o intraprenda una nuova convivenza di fatto.
Non viene invece prevista alcuna tutela per l’ipotesi di “rottura” del rapporto di convivenza, cui può comunque ovviarsi attraverso apposite previsioni contrattuali, già elaborate dalla prassi (come ad esempio l’attribuzione al convivente non titolare dell’immobile di una quota di comproprietà ovvero un diritto reale di godimento).
b) in caso di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto di locazione della casa di comune residenza, il convivente ha facoltà di succedergli nel contratto.
Il diritto di preferenza nell’assegnazione di alloggi di edilizia popolare: secondo il ddl nel caso in cui l’appartenenza ad un nucleo familiare costituisca titolo o causa di preferenza nelle graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare, di tale titolo o causa di preferenza possono godere, a parità di condizioni, i conviventi di fatto.
Il diritto a partecipare ad un’impresa familiare: il ddl, superando le chiusure della giurisprudenza, estende al convivente di fatto la disciplina propria dell’impresa familiare, e propone l’inserimento nel codice civile un nuovo articolo 230-ter in base al quale riconoscere al convivente di fatto che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente (e tale collaborazione non derivi da un rapporto di lavoro subordinato o di società) una partecipazione agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato.
Il diritto al risarcimento del danno in caso di morte derivante da fatto illecito: recependo orientamenti giurisprudenziali oramai consolidati il ddl equipara la convivenza di fatto al rapporto coniugale ai fini del risarcimento del danno in caso di decesso del compagno.
Il diritto agli alimenti in caso di cessazione della convivenza: in caso di cessazione della convivenza di fatto, il giudice può riconoscere al convivente il diritto di ricevere dall’altro convivente gli alimenti, per un periodo proporzionale alla durata della convivenza medesima, in presenza degli stessi presupposti e nelle misure già previste dall’art.438 c.c., e precisamente laddove egli
a) versi in stato di bisogno, e
b) non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento.
Ai fini della determinazione dell’ordine degli obbligati ai sensi dell’articolo 433 del codice civile, l’obbligo alimentare del convivente è anteposto a quello che grava sui fratelli e sorelle della persona in stato di bisogno.
I diritti successori: la convivenza rimane ancora irrilevante dal punto di vista successorio (a differenza di quanto previsto in tema di unioni civili). Pertanto nessun diritto spetta ex lege al convivente in caso di morte del compagno, né il ddl in esame ha pensato di agevolare, sotto il profilo fiscale, eventuali donazioni o lasciti testamentari tra i conviventi (che, essendo tra loro estranei, sconterebbero la massima aliquota).
I rapporti patrimoniali tra conviventi: il contratto di convivenza
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Il ddl consente ai conviventi di disciplinare in via programmatica i loro rapporti patrimoniali mediante la sottoscrizione di un apposito contratto che – in linea con le elaborazioni sinora compiute dal notariato in materia – è definito contratto di convivenza.
La forma e i requisiti di validità: il contratto è redatto in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato che ne attestano la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico.
Per garantirne l’opponibilità a terzi il professionista che autentica o riceve l’atto deve provvedere, entro dieci giorni, a trasmettere copia del contratto al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe ai sensi del regolamento di cui al d.p.r. 223/1989.
Il contratto di convivenza è affetto da nullità insanabile se concluso:
a) in presenza di un vincolo matrimoniale, di un’unione civile o di un altro contratto di convivenza;
b) in violazione del comma 36 (cioè tra non conviventi ai sensi del ddl);
c) da persona minore di età;
d) da persona interdetta giudizialmente;
e) in caso di condanna per il delitto di cui all’articolo 88 c.c. (in base al quale non possono contrarre matrimonio tra loro persone delle quali l'una è stata condannata per omicidio consumato o tentato sul coniuge dell'altra).
I suoi effetti rimangono invece sospesi in pendenza del procedimento di interdizione giudiziale o nel caso di rinvio a giudizio o di misura cautelare disposti per il descritto delitto di cui all’articolo 88 c.c., sino alla pronuncia di proscioglimento.
Il contenuto: il contratto può contenere:
a) l’indicazione della residenza comune;
b) le modalità di contribuzione alle necessità della vita in comune, in relazione alle sostanze di ciascuno e alla capacità di lavoro professionale o casalingo;
c) la scelta del regime patrimoniale della comunione dei beni (che dunque in questo caso non richiederebbe necessariamente la forma di cui all’art. 163 c.c.).
Il contratto non tollera l’apposizione di termini o condizioni (che, ove previsti, si hanno per non apposti) e può essere modificato – anche relativamente al regime patrimoniale prescelto - in qualunque momento con le medesime forme richieste per la sua sottoscrizione.
La norma non chiarisce se sia possibile ampliare il contenuto del contratto elencato al comma 53 con previsioni, per così dire, “atipiche” (come ad esempio quelle relative alla suddivisione delle spese per il mantenimento dei figli) ovvero se simili pattuizioni, certamente legittime, rimangano accordi liberamente sottoscrivibili dai conviventi, al di fuori, cioè, delle regole dei contratti in esame.
Ne rimangano invece certamente escluse pattuizioni volte a disciplinare i loro rapporti personali (per cui non si potrà, ad esempio, prevedere nel contratto di convivenza un obbligo di coabitazione ovvero un obbligo di fedeltà) e la loro successione (alla luce del divieto dei patti successori).
La risoluzione del contratto: il contratto di convivenza si risolve per
a) accordo delle parti (nelle forme prescritte per la sua sottoscrizione);
b) recesso unilaterale da esercitarsi con dichiarazione ricevuta da notaio o autenticata da notaio o avvocato; in questo caso il professionista che riceve o che autentica l’atto è tenuto a notificarne copia all’altro contraente all’indirizzo risultante dal contratto. Si prevede infine che, nel caso in cui la casa familiare sia nella disponibilità esclusiva del recedente, la dichiarazione di recesso, a pena di nullità, deve contenere il termine, non inferiore a novanta giorni, concesso al convivente per lasciare l’abitazione;
c) matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona (il contraente che ha contratto matrimonio o unione civile deve notificare all’altro contraente, nonché al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza, l’estratto di matrimonio o di unione civile);
d) morte di uno dei contraenti (il contraente superstite o gli eredi del contraente deceduto devono notificare al professionista che ha ricevuto o autenticato il contratto di convivenza l’estratto dell’atto di morte affinché provveda ad annotare a margine del contratto di convivenza l’avvenuta risoluzione del contratto e a notificarlo all’anagrafe del comune di residenza).
Laddove i conviventi avessero adottato il regime patrimoniale della comunione dei beni, la sua risoluzione determina lo scioglimento della comunione medesima e l’applicazione, nei limiti della compatibilità, delle previsioni del codice civile per lo scioglimento della comunione legale tra coniugi.
Il diritto internazionale privato: al fine di disciplinare il conflitto di norme applicabili ad una convivenza tra soggetti aventi nazionalità diversa, il ddl prevede (mediante l’inserimento di un art. 30-bis nella legge 218/1995) che in simili ipotesi si debba applicare - salve le norme nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima - la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata.
Unione civile
Per completezza, esaminiamo ora l’istituto dell’unione civile.
Cos'è e come si costituisce: è una specifica formazione sociale da inserire nel diritto di famiglia insieme al matrimonio, distinguendosi ovviamente dallo stesso ma allo stesso equiparata per molti dei diritti e doveri previsti.
Possono costituirle solo persone maggiorenni dello stesso sesso con dichiarazione resa di fronte ad un ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni e certificata dal relativo documento attestante l'intervenuta unione civile; il certificato di costituzione dell'unione civile (contenente i dati anagrafici e di residenza delle parti nonché il regime patrimoniale dalle stesse scelto) andrà poi, a cura dell'ufficiale di stato civile, registrato presso l'archivio comunale dello stato civile. Se una delle parti è straniera si applica l'art. 116, co. 1°, c.c. (in base al quale lo straniero che vuole contrarre matrimonio nella Repubblica deve presentare all'ufficiale dello stato civile una dichiarazione dell'autorità competente del proprio paese, dalla quale risulti che giuste le leggi a cui è sottoposto nulla osta al matrimonio).
Le parti non possono derogare ai diritti ed ai doveri che derivano dalla loro unione civile. La forte tendenza del ddl ad equiparare giuridicamente tale nuovo istituto al matrimonio è espressa non solo dal richiamo a numerose norme del codice civile (specie in tema di rapporti patrimoniali e successori) ma in particolare dal suo punto 20 che, al fine di rendere effettivi tali diritti ed adempiuti tali doveri, stabilisce come «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole «coniuge», «coniugi» o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Ne deriva che a tutte le norme infra richiamate alla parola "coniuge" andrà sostituita quella di "parte dell'unione civile". Eloquente a tal fine il punto 27 secondo il quale nell'ipotesi in cui il cambiamento di sesso di uno dei coniugi non abbia portato gli stessi a sciogliere il matrimonio ne deriverà tra loro «l'automatica instaurazione dell'unione civile» in quanto ormai persone con lo stesso sesso.
Resta fermo che non potranno applicarsi all'unione civile le norme del codice civile non richiamate espressamente e neanche quelle in tema di adozioni; al riguardo è bene ricordare come il maxi-emendamento governativo sopra citato abbia escluso il contestato meccanismo della stepchild adoption, letteralmente "adozione del figliastro", contenuto nella versione originaria del ddl, ossia la possibilità per le persone che hanno contratto l'unione civile di adottare il figlio del proprio partner.
Rapporti personali: con la costituzione dell'unione civile le parti, come i coniugi nel matrimonio, acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri, in particolare:
  • sono reciprocamente obbligate all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione (diritto sospeso in caso di allontanamento dalla comune residenza ex art. art. 146 c.c.); il maxi-emendamento ha invece stralciato dal ddl l'originaria previsione dell'obbligo di fedeltà;
  • sono entrambe tenute, ciascuna in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità lavorativa (anche casalinga), a contribuire ai bisogni comuni;
  • concordano insieme l’indirizzo della vita familiare ed a ciascuna di esse spetta il potere di attuarlo;
  • fissano la residenza comune.
Altra importante previsione in tema di rapporti personali è quella inerente il cognome: in sede di dichiarazione all’ufficiale di stato civile le parti possono stabilire di assumere, per la durata dell’unione civile, un cognome comune scegliendolo tra i loro cognomi (in tal caso la parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome).
Rapporti patrimoniali: nel silenzio delle parti si applica il regime della comunione legale (come avviene per il matrimonio), fermo restando la possibilità per le stesse di optare per il regime della separazione dei beni non solo al momento della dichiarazione dinanzi all'ufficiale di stato civile, ma anche successivamente per mezzo di una convenzione patrimoniale alla quale si applicano tutte le regole (di sostanza e di forma) previsti dagli articoli 162, 163, 164 e 166 del codice civile in tema di convenzioni matrimoniali.
Rilevante è il richiamo all'applicazioni delle norme di cui alle sezioni II, III, IV, V e VI del capo VI del titolo VI del libro primo del codice civile, ossia l'intero pacchetto normativo dei rapporti patrimoniali tra coniugi: in forza di tale richiamo le parti di un'unione civile potranno, al pari dei coniugi, non solo optare tra la comunione e la separazione dei beni, ma anche costituire un fondo patrimoniale o un'impresa familiare (richiamate anche le collegate norme degli artt. 2647, 2653, co. 1°, n. 4, e 2659 c.c.). Si applica anche la normativa in tema di alimenti prevista in favore del coniuge dagli artt. 433 e ss. c.c.
Rapporti successori: alle parti dell'unione civile si applicano le norme in tema di indegnità (artt. 463-466 c.c.), di diritti riservati ai legittimari (artt. 536-564 c.c.), di successioni legittime (artt. 565-586 c.c.), di collazione (artt. 737-751 c.c.) e di patto di famiglia (artt. 768-bis- 768-octies). Ogni riferimento al coniuge contenuto nelle norme sopra richiamate dovrà conseguentemente essere inteso come riferito anche alla parte dell’unione civile. Inoltre la parte dell'unione civile superstite ha diritto alla morte dell'altro all'indennità di preavviso ed a quella di fine rapporto ai sensi degli artt. 2118 e 2120 c.c.
Tutela della persona: nella scelta dell'amministrazione di sostegno il giudice tutelare preferisce, ove possibile, l'altra parte dell'unione civile, così come la stessa è legittimata a promuovere un procedimento di interdizione o inabilitazione e chiederne la revoca.
Cause di invalidità e di scioglimento: Le cause di invalidità dell'unione sono le stesse del matrimonio (richiamati gli artt. 119, 120, 123, 125, 126, 127, 128, 129 e 129-bis c.c.). Inoltre anche per l'unione civile sono cause di impugnazione la violenza e l'errore. Tra le cause impeditive per la costituzione di un'unione civile vi è la sussistenza per una delle parti di un matrimonio o di un'unione civile con altra persona dello stesso sesso.
Le cause di scioglimento sono:
a) la morte;
b) i casi previsti dalla legge sul divorzio;
c) la volontà, anche di una sola delle parti, manifestata dinanzi l'ufficiale dello stato civile che annota tale domanda nel registro delle unioni trascorsi tre mesi dalla data di manifestazione;
d) la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso (in questo caso infatti le parti non sarebbero più dello stesso sesso).
Si applicano in quanto compatibili le norme procedurali in tema di divorzio e di negoziazione assistita degli avvocati.
Delega: il Governo è chiamato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più d.lgs. per coordinare quanto contenuto nella presente legge con le altre leggi, regolamenti e decreti, ed in particolare adeguare alle unioni civili le normative in materia di stato civile e diritto internazionale privato.

martedì 26 aprile 2016

Affidamento esclusivo dei figli a un solo genitore: in quali casi?



Affidamento esclusivo dei figli a un solo genitore: in quali casi?
Affido esclusivo dei minori dopo la separazione o il divorzio: gli effetti sulla responsabilità genitoriale, le condizioni oggettive e comportamenti che lo giustificano, la possibilità di accordo tra i genitori, il provvedimento del giudice.
 Come noto, nell’ultimo decennio si è passati da un sistema che dava prevalenza, in caso di separazione, all’affidamento esclusivo dei figli ad un solo genitore e solo in via subordinata ad entrambi, ad un sistema nel quale l’affidamento condiviso (ossia quello ad entrambi i genitori) è divenuto la regola [1]. Ma sappiamo davvero che cosa significa avere l’affido esclusivo dei figli? In quali casi lo si può chiedere? Il giudice può impedire di vedere i figli al genitore non affidatario? Come fa il tribunale a decidere sulla domanda di affido esclusivo? E’ legittimo l’accordo dei genitori di affido esclusivo dei figli?
Cosa prevede la legge riguardo all’affidamento dei figli?
Attualmente l’affidamento esclusivo costituisce un’eccezione alla regola generale dell’affidamento condiviso. Il giudice, infatti, deve innanzitutto valutare se sussistono le condizioni affinché i figli restino affidati ad entrambi i genitori e  subordinatamente stabilire se affidarli in via esclusiva solo alla madre o al padre.
Il magistrato potrà quindi disporre l’affido esclusivo della prole solo quando quello condiviso possa rappresentare, per i più diversi motivi (che esamineremo a breve), contrario all’interesse dei figli [2].
Principio questo valevole per tutti i figli (nati cioè sia fuori che dentro il matrimonio) e rafforzato dalla recente riforma sulla filiazione [3] che ha eliminato la distinzione prima esistente tra quelli naturali (cioè nati da coppie non sposate) e legittimi (in quanto nati da coppieconiugate).
 Che cosa significa avere l’affido esclusivo dei figli?
Spesso si pensa che, una volta ottenuto l’affidamento esclusivo dei figli, il genitore affidatario abbia la piena libertà di prendere tutte le decisioni che riguardano i minori senza che in esse possano intervenire né il giudice né tantomeno l’altro genitore. In realtà, questa libertà non è affatto piena ed assoluta.
E’ perciò opportuno chiarire quale sia l’effettivo contenuto dell’affido esclusivo e quali le sue conseguenze pratiche su ciascuno dei genitori (affidatario e non).
La legge [3] disciplina in modo espresso che, in caso di affidamento esclusivo:

  • il genitore affidatario dei figli: esercita in via esclusiva la responsabilità (prima chiamata potestà) genitoriale su di essi, salvo il caso in cui il giudice abbia disposto diversamente. Il genitore, tuttavia, deve comunque attenersi alle condizioni determinate dal magistrato e favorire il rapporto del figlio con l’altro genitore, a meno che (come vedremo in seguito) vi siano contrarie indicazioni del giudice giustificate da motivi di particolare gravità [4];

  • entrambi i genitori: devono prendere insieme le decisioni di maggiore interesse (relative a educazione, salute e istruzione) per i figli [5]; solo in presenza di gravi motivi, infatti, il giudice può escludere o limitare l’esercizio della responsabilità da parte del genitore non affidatario in riferimento alle suddette decisioni[6];

  • il genitore non affidatario: non solo ha il diritto e il dovere di vigilare sulla istruzione ed educazione dei minori, ma può rivolgersi al giudice in tutti i casi in cui ritenga che siano state prese delle decisioni pregiudizievoli al loro interesse. Egli conserva, inoltre, il diritto di frequentare i figli in base ai tempi e ai modi di permanenza del minore stabiliti dal giudice (cosiddetto diritto di visita) in ragione del diritto dei figli a mantenere un rapporto equilibrato e continuativo sia con la madre che con il padre.

L’affido esclusivo, dunque, non comporta – come potrebbe essere facile pensare – la perdita della responsabilità genitoriale in capo al genitore che non ha ottenuto l’affidamento della prole, ma semplicemente una sua restrizione in ragione della sussistenza di particolari ragioni (che a breve esamineremo) che abbiano indotto il giudice a ritenere l’affido condiviso dannoso per i minori.
Anche in caso di affido esclusivo, infatti, i genitori devono continuare ad assumere insieme le decisioni più importanti per i figli, e solo in presenza di ragioni particolarmente gravi, tali da rendere impossibile una decisione congiunta, il genitore affidatario potrà, eventualmente, richiedere un provvedimento di decadenza della responsabilità genitoriale dell’altro [7].
Quando si può chiedere l’affido esclusivo dei figli?
Ciascuno dei genitori può, in qualsiasi momento (e quindi anche dopo che il giudice abbia disposto l’affido condiviso dei figli), presentare una domanda tesa ad ottenere l’affidamento esclusivo dei minori.
Tale istanza deve, però, avere alla base delle adeguate motivazioni: il genitore, quindi, non potrà presentare una domanda di affido esclusivo basata sulla propria convinzione (come pure sul timore) che l’altro genitore non sia in grado di prendersi cura dei figli, ma dovrà fornire al giudice prove concrete del fatto che questi non sarebbe in grado di assumersi tutte le responsabilità derivanti dal proprio ruolo e che, di conseguenza, potrebbe pregiudicare il futuro benessere dei minori.
Il giudice, di seguito, dovrà adeguatamente valutare le ragioni addotte dal genitore per poi motivare la sua decisione (nel modo che a breve vedremo) nel primario obiettivo di individuare quel genitore che sia maggiormente in grado di riconoscere le esigenze affettive del figlio, assicurandogli la continuità dei rapporti con i parenti [8].
 In quali casi si può chiedere l’affido esclusivo dei figli?
La legge non individua dei casi specifici in presenza dei quali il giudice è tenuto a disporre l’affido esclusivo ad uno solo dei genitori. In ogni caso, per consolidata giurisprudenza [9] si ritiene che egli possa prevedere tale forma di affidamento quando:
 – rilevi la sussistenza di un oggettivo pregiudizio per il minore nell’applicare la regola generale dell’affido condiviso ad entrambi i genitori;
 – accerti l’ inidoneità o l’incapacità a prendersi cura ed educare i figli da parte di uno dei genitori (ciò, ad esempio, potrebbe essere quando una dei genitori abbia una condotta di vita anomala e pericolosa);
 – constati che vi è il categorico rifiuto del minore di avere rapporti con uno dei genitori.
 Alcuni casi in cui può essere disposto l’affido esclusivo
Per dare un concreto contenuto a questi principi, ci riferiamo – com’è prassi del nostro portale – a casi specifici esaminati dai vari Tribunali che hanno individuato la suddetta inidoneità genitoriale in situazioni oggettive e in comportamenti sia concreti che omissivi posti in essere da uno dei genitori , tali da giustificare un provvedimento di affido esclusivo.

  • Così, ad esempio, è stato ritenuto, in più occasioni, un valido motivo per disporre l’affido esclusivo, il fatto che il genitore obbligato non provveda a contribuire al mantenimento dei figli: tale condotta, infatti – sia che sia stata compiuta prima della separazione (e quindi durante la convivenza in famiglia) che successivamente ad essa (quando cioè il giudice ha disposto la misura dell’assegno di mantenimento) viola i più ampi doveri di cura, assistenza ed educazione di un figlio [10].

  • Al pari può giustificare un provvedimento di affido esclusivo l’atteggiamento del genitore non convivente con i figli che, oltre ad avere un rapporto molto conflittuale con l’altro genitore, dimostri di non avere alcun progetto educativo per i figli; cosa evidente nel caso in cui egli non formuli in giudizio specifiche richieste riguardo alle modalità del proprio diritto di visita, alla divisione dei compiti con l’altro genitore, al modo per dedicare ai figli cura, educazione, istruzione, in base alle proprie necessità, alla situazione abitativa, agli impegni di lavoro [11].

  • Tanto più, quindi, legittima un provvedimento di affido esclusivo il completo disinteresse di un genitore verso i figli, la mancata partecipazione alla loro vita quotidiana e alle scelte che li riguardano, la mancata conoscenza dei loro problemi (anche di salute), le profonde carenze nei compiti di cura e di educazione [12]. Con riferimento a questa situazione i giudici hanno parlato per la prima volta di affido superesclusivo. Una forma di affidamento che, di fatto, concentra sul solo genitore affidatario l’esercizio della responsabilità genitoriale ; in tal modo, onde evitare che la rappresentanza degli interessi della prole possa essere pregiudicata anche con riferimento a questioni di particolare importanza (come quelle sulla educazione, salute e istruzione) queste devono essere prese solo dal genitore affidatario. Con l’affidamento superesclusivo il genitore non affidatario conserva solo nominalmente la responsabilità sui figli, ma di fatto ne viene privato del suo contenuto essenziale.

  • Spesso, poi, sono proprio i suddetti comportamenti di disinteresse a far manifestare al figlio la decisa volontà di non avere rapporti con il genitore. Sicché, ove il minore dichiari apertamente la propria ostilità nei riguardi di uno dei genitori, il giudice dovrà dare prevalenza a tale volontà, indipendentemente dal fatto che detto rifiuto sia stato favorito dal genitore che vive col minore convive [13]: in tal caso, quindi, il giudice potrà disporre l’affido esclusivo in quanto l’affidamento condiviso potrebbe rivelarsi potenzialmente destabilizzante per lo suo sviluppo psicofisico del minore. Diversamente il magistrato, fermo restando l’affido condiviso, potrà scegliere di limitare il diritto di visita del genitore non collocatario e suggerire un percorso di mediazione familiare o psicologico teso al recupero del rapporto tra le parti.

  • Ancora, il giudice ben potrebbe disporre l’affido esclusivo (e superesclusivo) nei confronti del genitore ostacolato dall’altro nei rapporti con i figli, nell’intento di impedire in ogni modo la frequentazione tra loro [14].

  • Altra ipotesi in presenza della quale è possibile che il giudice disponga l’affido esclusivo è quella in cui uno dei genitori presenti forti problemi di salute mentale [15] tali da poter determinare un pregiudizio ai figli; può trattarsi, ad esempio, di un accertato disturbo della personalità (anche di tipo schizoide) che porti uno dei genitori ad una incontenibile tendenza all’aggressività. Naturalmente anche qui va fatto un discorso caso per caso perché la malattia psichica non può mai considerarsi motivo automatico per derogare alla regola dell’affidamento condiviso. Per un approfondimento sul punto rinviamo all’articolo: “Malattia psichica del genitore: giustifica l’affido esclusivo dei figli?”.

  • A maggior ragione, poi, il giudice può disporre l’affido esclusivo quando, a prescindere dalla diagnosi di un disturbo mentale, uno dei genitori si trovi in situazioni oggettive tali da poter rappresentare un pericolo per i figli: si pensi ai casi in cui , per la propria condotta colposa, un genitore sia stato dichiarato decaduto dalla responsabilità genitoriale [16] oppure sia detenuto in carcere a causa degli episodi di violenza nei confronti della famiglia o di possesso di sostanze stupefacenti [17]; in tutti questi casi, infatti, i problemi che il genitore ha con la giustizia devono ritenersi causa di un prevedibile e grave pregiudizio per i figli minori qualora il genitore fosse coinvolto nelle decisioni che li riguardano.

  • Vi sono poi le situazioni in cui tra i genitori vi è una forte conflittualità: in tali casi, l’orientamento generale dei giudici è quello di prevedere comunque l’affido condiviso; se così non fosse, infatti, visto che il conflitto esiste nella maggior parte delle situazioni di separazione, non solo l’affido condiviso sarebbe applicato solo in pochi casi ma – cosa ancora più grave – ciascun genitore potrebbe facilmente far uso del conflitto per indurre il giudice a scegliere l’ affidamento esclusivo. In ogni caso, quando il conflitto sia elevato e insanabile si ritiene che il giudice possa disporre l’affido esclusivo in quanto, pur essendo la scelta dell’affido condiviso astrattamente possibile, essa, per essere concretamente attuata, richiederebbe da parte dei genitori una comunità d’intenti e una consapevole adesione ad un comune progetto educativo dei figli difficilmente realizzabile all’atto pratico [18].
 Il giudice può impedire al genitore non affidatario di vedere i figli?
Abbiamo visto che il genitore non affidatario conserva comunque il diritto di visita nei confronti dei minori.
In alcuni casi, tuttavia, il giudice può decidere di limitare o escludere tale diritto; ciò può avvenire quando ritenga che la frequentazione tra genitore non affidatario e figli possa in qualche modo pregiudicare il benessere di questi ultimi.
La limitazione del diritto di visita può essere intesa come una prescrizione che preveda:
– una riduzione del tempo (e dei giorni) da dedicare agli incontri,
– che gli incontri avvengano in una determinata sede (ad esempio la casa dei nonni)
– la partecipazione agli incontri di terze persone o perchè affettivamente legate al minore o tenute ad un ruolo di sorveglianza (ad esempio i servizi sociali) [19].
Il giudice, inoltre può anche escludere del tutto la frequentazione tra genitore e figlio quando, ad esempio, il genitore sia tossico o alcool dipendente, o abbia una condotta particolarmente violenta nei confronti della moglie o dei figli o abbia avuto pregressi comportamenti criminali.
Non può, invece, essere escluso il diritto di visita nel caso in cui il genitore non affidatario soffra di patologie invalidanti, se la conservazione del rapporto presenti per il minore una utilità [20]: in tal caso, semmai, il giudice potrà disporre, anche in ragione dell’età del figlio, che gli incontri avvengano alla presenza di un familiare o un conoscente.
 Come decide il giudice sulla richiesta di affido esclusivo?
Dinanzi alla richiesta di uno o di entrambi i genitori diretta ad ottenere l’affido esclusivo dei figli, il giudice dovrà valutare, in modo oggettivo, la inidoneità del genitore che si intende escludere dall’affidamento; a questo scopo il magistrato dovrà tener conto di qualunque situazione, comportamento o condizione personale (anche involontaria) che imponga di tutelare l’equilibrio e lo sviluppo psicofisico dei figli (ad esempio uno stato di alcolismo o di tossicodipendenza).
Se il giudice individua nelle particolari circostanze che gli vengono rappresentate (anche da una eventuale relazione dei servizi sociali da lui incaricati) dei motivi idonei a recare pregiudizio alla prole e rendere uno dei genitori inadeguato al proprio ruolo, egli accoglie la domanda di affido esclusivo al genitore che ne ha fatto richiesta oppure al genitore che egli ritiene essere il più idoneo (quando la domanda di affido esclusivo gli sia stata formulata da entrambi).
In tal caso il magistrato ha l’obbligo di motivare tale decisione spiegando nel provvedimento sia perché ritiene idoneo il genitore affidatario sia perché individua una inidoneità educativa nell’altro [21]. Non è sufficiente, cioè, che il giudice decida per l’affido esclusivo ritenendo “idoneo” il genitore affidatario; ciò, infatti, nulla dice riguardo alle capacità genitoriali dell’altro. Pertanto il giudice deve spiegare anche perché ravvisa la inidoneità educativa del genitore che si vuole escludere dall’analogo esercizio della responsabilità sui figli (cosiddetto criterio della “motivazione in negativo”[22]).
 Nei casi in cui, invece, il giudice ritenga la richiesta di affidamento esclusivo del tutto priva di fondamento, egli potrebbe:
 – non solo considerare il comportamento del genitore istante ai fini della determinazione dei provvedimenti da adottare nell’interesse dei figli: e quindi, in pratica, decidere di affidare i figli proprio al genitore che non abbia chiesto l’affido esclusivo;
 – ma anche condannare il genitore al risarcimento del danno da responsabilità aggravata (con una somma determinata in via equitativa) per aver agito in giudizio con mala fede o colpa grave [23] chiedendo l’affidamento esclusivo nella consapevolezza dell’infondatezza della propria domanda [24] .
 I genitori possono accordarsi per l’affidamento esclusivo?
Circa la possibilità per i genitori di sottoscrivere un accordo affinché uno solo di essi sia individuato dal giudice quale affidatario dei figli, esistono due diversi orientamenti:
 -1. secondo il primo, si tratta questo di un accordo comunque possibile, fermo restando che è dovere del magistato (come per ogni questione che riguardi i minori) valutare se le precise ed espresse circostanze addotte dai genitori per giustificare la richiesta siano effettivamente in grado di pregiudicare il benessere dei figli. Dunque, secondo questa tesi, il giudice, anche in caso di richiesta congiunta, non può limitarsi a prendere atto dell’accordo e approvarlo, ma ha il preciso dovere di valutare in via prioritaria se esso è conforme, o meno, all’interesse dei figli [25]; se, quindi tale pregiudizio manchi, il magistrato non può omologare l’accordo di affido esclusivo ad uno solo dei genitori, poiché esso ha ad oggetto diritti indisponibili [26];

2. secondo, invece, una più recente e rigorosa tesi [27], i genitori non possono in alcun modo accordarsi affinché uno solo di essi abbia l’affido esclusivo dei figli; ove ciò avvenga, il giudice dovrà rifiutare l’omologa dell’accordo: non è, infatti, ammissibile la rinuncia all’affidamento da parte di un genitore in quanto il diritto a ricevere cura e assistenza morale e materiale sia dalla madre che dal padre (c.d. diritto alla bigenitorialità) rappresenta un diritto del minore (espressamente previsto dalla legge [28]) e non dei genitori.
All’atto pratico, quindi, anche nel caso in cui i genitori abbiano indicato circostanze concrete, dettagliate e specifiche tali da poter pregiudicare l’interesse dei figli, l’affido esclusivo dovrà comunque rappresentare una scelta del giudice e mai l’espressione di approvazione di un accordo raggiunto dai genitori.


[1] Legge 8 febbraio 2006, n. 54 recante “Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli”.
[2] Art. 155-bis cod. civ. e 337–quater cod. civ.
[4] Cass. pen. sent. n. 27995/2009.
[5] Come già affermato dalla giurisprudenza antecedente alla riforma: Cass. sent. n 10265/2011,Trib.Min. Catania, 23.05.2007.
[6] Trib. Pordenone, 30.03.2007.
[8] Cass. sent. n. 24907/2008.
[9] Cass. sent. n. 18867/11; Cass. sent. n. 26587/2009; Cass. sent. n. 16593/2008.
[10] Trib. Roma, sent. n. 23620/13; Cass. sent. n 26587/2009; Trib. Napoli, 23.09.2008; Trib. Catania, 14.01.2007.
[11] C. App. Bologna, sent. n. 36/2007.
[12] C. App. Roma, 15.11.2012; Trib. Messina, 29.01.2008; C.App. Cagliari, 20.04.2007; C.App. Bologna, 21.09.2006.
[13] Cass. sent. n. 7773/2013; Cass. sent. n. 18867/2011; Trib. Bologna, 17.04.2008;App. Napoli. 22.03.2006; C. App. Napoli, 15.05.2006; Trib. Firenze, 22.04.2006.
[14] Trib. Pavia sent. del 29.12.2014; Trib. Firenze, 11.02.2008, Trib. Min. Milano, 6.07.2007.
[15] Trib. Nicosia, 22.04.2008; Trib. min. Trento, 2.10. 2007; Trib. Bologna, sent. n. 2547/2006; Trib. Catania, 18.05.2006.
[16] Trib. Napoli, n. 2807/2007.
[17] Trib. Bari, 18.01.2008; Trib. Catania, 18.05.2006.
[18] Cass. sent. n. 16593/2008; C. App. Bari, 19.01.2007.
[19] Trib. Firenze, 25.09.2000; Cass. sent. n. 6200/2009.
[20] Cass. sent. n. 6200/2009.
[21] Cass., sent. n.24841/2010; Cass. sent. n. 24526/2010; Cass, sent. n. 16593/2008.
[22] Cfr. Cass. sent. n. 9632/15; n. 24526/10; n. 12308/10; n. 26587/09; 16593/08.
[23] Ai sensi dell’art. 96 cod. proc. civ.
[25] Trib. min. L’Aquila, 26.03.2007.
[26] Trib. Bologna, sent. n.1210/2010.
[27] Trib. Varese, 21.01.2013.