In caso di
separazione si possono prelevare beni dalla casa coniugale?
Sottrarre dei beni dalla casa familiare
assegnata all’ex coniuge è reato di appropriazione indebita.
A nessuno fa piacere l’idea di lasciare la casa
coniugale senza poter portare via i propri beni (magari appartenuti alla
propria famiglia o acquistati col sacrificio del proprio lavoro). Tuttavia,
quando il giudice pronuncia la sentenza di separazione, assegnando la casa
familiare a uno dei due coniugi [1] (di norma, a chi abiterà stabilmente
con la prole), attribuisce sempre l’appartamento insieme a tutti quei beni
(mobilio, suppellettili, elettrodomestici) e servizi (si pensi ad esempio
all’uso del garage) necessari ad assicurare l’ordinaria organizzazione della
vita familiare [2], a prescindere da chi ne sia il proprietario.
Così facendo, la legge vuole garantire ai soggetti che
rimangono ad abitare la casa coniugale (il coniuge e/o i figli) la continuità
delle abitudini domestiche nel luogo che ha costituito – prima della
separazione – l’habitat familiare.
La “casa familiare” è il centro delle
consuetudini, degli interessi e degli affetti in cui si esprime e si articola
la vita familiare, e si identifica unicamente con quell’immobile che ha
costituito il centro di aggregazione della famiglia durante la convivenza
coniugale [3].
Beni esclusi dall’assegnazione
Va da sé che il criterio dell’assegnazione non è
esteso:
– alle seconde case (come, ad esempio, l’appartamento
al mare o in montagna) e ai beni in esse contenuti, utilizzate in maniera
temporanea o saltuaria, e nelle quali la vita domestica non ha carattere
continuativo;
– ai beni strettamente personali o quelli che
soddisfano le particolari esigenze del coniuge (si pensi ad esempio agli
strumenti necessari per la professione o per particolari bisogni di salute):
possono essere prelevati dalla casa familiare senza che occorra alcuna
specifica autorizzazione dell’ex coniuge né, tantomeno, del magistrato.
Facoltà di diverso accordo
Ciò posto, i coniugi possono redigere, di comune
accordo, una lista di beni, specificandone la relativa titolarità o
escludendone dal godimento dell’assegnatario alcuni, di norma compresi
nell’arredo della casa coniugale [4].
In altre parole, la volontà dei coniugi sulla
divisione dei beni prevale su qualsiasi provvedimento del giudici: i coniugi
hanno la possibilità di stabilire concordemente che alcuni beni (specie se di
proprietà di uno solo di loro) vadano a chi dei due dovrà lasciare la casa.
Tale accordo, in caso di separazione consensuale, può
essere inserito nel ricorso per ottenere la separazione o essere stilato in una
scrittura separata; potrà anche essere raggiunto in un momento successivo,
qualora la separazione, da giudiziale, si trasformi in consensuale.
In caso contrario, invece, rimane fermo il
provvedimento di assegnazione secondo le modalità decise dal Tribunale.
Conseguenze del prelievo di beni non autorizzato
È da considerarsi illegittimo il comportamento dell’ex
coniuge non assegnatario dell’immobile che porti via oggetti o altri beni dalla
casa familiare senza che vi sia stato uno specifico accordo in tal senso. In
particolare, non solo, a seguito di una azione in sede civile [5], egli
dovrà restituire i beni al legittimo detentore (in virtù del provvedimento di
assegnazione del Tribunale) ma, dinanzi ad una denuncia dell’ex, dovrà
risponderne anche in sede penale.
Secondo la Cassazione [6], infatti, il
coniuge che non prenda di buon grado la pronuncia del giudice e si appropri –
prima di lasciare la casa assegnata all’ex – di una serie di beni (oggetti di
arredo, suppellettili o elettrodomestici) si procura un ingiusto profitto
e deve rispondere del reato di appropriazione indebita [7].
Stesso principio, tuttavia, vale nel caso opposto:
quello cioè in cui il coniuge assegnatario dell’immobile impedisce all’altro di
ritirare i propri effetti personali dalla casa familiare.
In tal caso, infatti, sarà il coniuge che rimane in
casa a trarre un ingiusto profitto dal godimento di beni esclusi dalla
titolarità personale, perché appartenenti all’altro.
Quando è escluso il reato
Attenzione: questo comportamento non è sempre punito dalla legge
penale in quanto il reato è escluso se il prelevamento di beni avvenga a
danno del coniuge “non legalmente separato”, ossia prima della
sentenza di separazione [8].
La legge penale, infatti, non punisce alcuni
comportamenti (di norma qualificati come reati) quando sono posti in essere tra
congiunti, in quanto suppone che esista tra le parti quel sentimento di
solidarietà familiare (che i giuristi chiamano affectio familiaris) che
costituisce la base della vita matrimoniale.
Ma cosa avviene se la sottrazione dei beni è compiuta
dopo che il Presidente del Tribunale ha autorizzato i coniugi a vivere separati
(assegnando la casa a uno dei due), ma non ha ancora pronunciato la sentenza di
separazione?
Il problema è stato affrontato in alcune pronunce
dalla Cassazione [9] in cui si afferma che, anche in questo caso, il
coniuge che ha prelevato i beni non è punibile dalla legge penale
in quanto la causa di separazione non si è conclusa definitivamente con
una sentenza.
In parole semplici, il reato non sussiste se il fatto
è avvenuto quando la causa di separazione era ancora in corso o quando non era
ancora stato omologato il verbale della separazione consensuale; in queste
fasi, i coniugi non sono ancora considerati separati dalla legge.
Appare evidente l’inadeguatezza del sistema che
finisce col privare di una opportuna tutela penale il coniuge (e/o i figli)
assegnatario dell’immobile in una fase (a volte lunga anni) estremamente
delicata dei procedimenti di separazione e nella quale, spesso, le parti sono
accecate dai reciproci rancori per via del giudizi in corso.
Una interpretazione (se non una riformulazione)
meno restrittiva della norma (che parla di coniuge legalmente separato) di
sicuro contribuirebbe ad impedire l’abuso di tale diritto da parte di
molte coppie in conflitto, il più delle volte a danno dei figli.
In mancanza, il consiglio rimane sempre quello di
ricercare, al momento della separazione, soluzioni condivise (magari
avvalendosi di un percorso di mediazione familiare o di diritto collaborativo.
[1] Art. 337 ter cod. civ.
[2] Cass. sent. n. 7303/83 e Cass. sent. n. 5793/93.
[3] Cass. sent. n. 8667/92.
[4] Cass. sent. n. 5189/98.
[5] Si può ipotizzare, in questi casi, l’esperimento di
un’azione esecutiva per la consegna di beni mobili (ai sensi degli artt. 605 e
ss. cod. proc. Civ.) o di un’azione di reintegrazione e di manutenzione nel
possesso (ai sensi dell’art. 703 cod. proc. civ.) o, ancora, di un giudizio ordinario
per il risarcimento del danno (specie nel caso in cui l’assegnatario abbia
dovuto ripristinare i beni sottratti alla famiglia acquistandone di nuovi).
[6] Cass. sent. n. 11276 dell’11.03.13.
[7] L’art. 646 cod. pen. Recita: “Chiunque, per procurare
a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria del denaro o della cosa
mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a
querela della persona offesa, con la reclusione fino a tre anni e con la multa
fino a lire due milioni….”.
[8] Art. 649, c. 1, n. 1, cod. pen.
[9] Cass. sent. n. 34866/2011 e n. 46153/13.
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