Mobbing sul
lavoro… da parte di suocero e cognato? Scatta il reato di maltrattamenti in
famiglia
La
Cassazione ritiene integrato il delitto previsto dall’art. 572 c.p. nei
rapporti di tipo lavorativo anche se non si può parlare di impresa familiare
di Marina Crisafi – Avere il suocero come datore di
lavoro si sa può far nascere problemi, ma se a lui si affianca anche il cognato
ed entrambi pongono in essere condotte mobbizzanti nei confronti del
dipendente/parente scatta il reato di maltrattamenti
in famiglia. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza
n. 44589/2015, depositata il 4 novembre scorso (qui sotto allegata),
rigettando i ricorsi di suocero e cognato avverso la decisione della Corte
d’Appello di Torino che li aveva condannati a otto mesi di reclusione per il
reato di cui all’art. 572 c.p.
A detta del giudice di merito, per la lunga serie di
atteggiamenti e condotte vessatorie perpetrate in danno del dipendente della
loro società (rispettivamente, genero e cognato, degli imputati), i due
andavano condannati per maltrattamenti
in famiglia, in quanto commessi all’interno di azienda di natura
parafamiliare.
Per piazza Cavour, la corte ha ragione.
Il delitto di maltrattamenti previsto dall’art. 572
c.p. hanno affermato i giudici della sesta sezione, infatti, “può trovare
applicazione nei rapporti di tipo lavorativo all'indefettibile condizione che
sussista il presupposto della parafamiliarità, intesa come
sottoposizione di una persona alla autorità di altra in un contesto di
prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità
familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto
all'azione di chi ha la posizione di supremazia”.
E ben possono le pratiche di mobbing perpetrate ai danni del lavoratore
integrare il delitto de qua esattamente alle stesse condizioni, ossia
quando il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma la natura
parafamiliare sopradescritta. Perché anche se il reato di cui all’art. 572
c.p., ha precisato la S.C., non costituisce la tutela penale del c.d. “mobbing lavorativo”, il quale ove dante
luogo a condotte autonomamente punibili (ingiurie, diffamazione, minacce, ecc.)
trova nelle corrispondenti figure di reato il relativo presidio, tuttavia, la
peculiarità del caso di specie abilita all’uso del termine “panfamiliare”,
idoneo a definire i rapporti tra le parti.
L’azienda in cui la persona offesa aveva trovato
ingresso era infatti di piccole dimensioni, a conduzione familiare e gestita dagli imputati. E
le condizioni di lavoro dell’uomo, una volta diventato “affine” erano
peggiorate (essendo discriminato rispetto ai colleghi, subendo continui ed
esagerati rimproveri, pubbliche denigrazioni, aggravamenti degli orari di
lavoro), e, infine, degenerate del tutto, a seguito della separazione con la
moglie (figlia di uno degli imputati), portando al licenziamento
per giusta causa.
Nessun dubbio, dunque, per la Cassazione che la
“parabola lavorativa” in esame sia connotata da una “inestricabile commistione tra aspetti natura lavorativa e
familiare” conducendo, per questa via, a concludere che “pur non ricorrendo
le condizioni formali di sussistenza dell'impresa familiare di cui all'art.
230-bis c.c., il rapporto di lavoro - imposto al dipendente - fosse di natura
più che parafamiliare e come anticipato addirittura panfamiliare, come tale
pienamente compatibile con la ritenuta applicabilità dell'art. 572 c.p.”.
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